Prendo spunto da una recente sentenza della Corte di Cassazione per parlare della problematica , spesso sottaciuta ma sempre attuale e rilevante, della tassazione dei proventi del cosiddetto “mestiere più antico del mondo”: la prostituzione.
Non voglio certamente entrare nel merito degli aspetti morali ed etici di questa “attività”, ma semplicemente ricordare che tutti i cittadini italiani devono “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.” Così infatti recita l’art. 53 della nostra amata Costituzione.
E quindi coloro che decidono di intraprendere questa “attività” e a fronte di essa percepiscono dei denari che accrescono la loro capacità contributiva (reddito) è assolutamente giusto che contribuiscano alle spese dello Stato come ogni altro cittadino che svolge attività lavorative considerate “normali” dall’opinione pubblica prevalente. E quindi devono pagare le tasse!!
Negli ultimi tempi, finalmente, l’Agenzia delle Entrate ha operato vari interventi accertativi sulla base del redditometro e delle indagini finanziarie, rilevando spesso situazioni anomale contraddistinte da persone con alto tenore di vita e redditi dichiarati vicini allo ZERO.
E si è quindi arrivati alla recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 22413 del 4/11/2016), proprio relativa al caso di una persona che disponeva di una ricchezza incompatibile con i redditi dichiarati. La contribuente (anche se contribuiva poco) si è difesa sostenendo che aveva avuto sì dei proventi, ma che gli stessi non erano stati assoggettati a tassazione poiché prodotti facendo la prostituta, attività considerata illecita e quindi non riconosciuta dall’ordinamento italiano e per questo non tassabile.
La Cassazione ha deciso che detti redditi dovevano essere tassati poiché “… l’esercizio dell’attività di prostituzione, occasionale o abituale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini IRPEF, trattandosi in ogni caso di proventi rientranti nella categoria reddituale dei redditi diversi …”.
Condivido appieno la posizione della Cassazione. A parte il fatto che la prostituzione in sé per sé non attività illecita. Sono attività illecite l’induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione, ma non l’attività in sé.
In punta di diritto è quindi giusto che anche chi decide di prostituirsi (liberamente e senza alcuna forma di costrizione) debba pagare le tasse. E se lo fa in maniera abituale, è altresì corretto che apra la Partita Iva, tenga una regolare contabilità e paghi tasse e contributi, come per legge.
Perché è inutile dire che l’evasione fiscale ha raggiunto livelli stratosferici e poi cercare l’imposta evasa solo e sempre dai soliti noti (bar, artigiani etc.). Ci sono mondi sommersi che nessuno osa affrontare. Ma esistono, e in termini di redditi non dichiarati e imposte evase sono tali da poter fare una Legge di Stabilità (e forse di più).